Fibre tessili vegetali della tradizione, una risorsa da riscoprire

Foto n. 1 Fiori di ginestra odorosa (Spartium junceum L.) in un'area collinare del teramano.  Ph. N.Olivieri

La vita delle comunità umane insediate nelle aree montane è stata sempre caratterizzata da un marcato grado di autosufficienza economica, determinato dalle difficoltà delle comunicazioni che spesso rendevano problematici gli scambi ed i commerci. Nei paesi montani come Cerqueto l’autosufficienza si manifestava tramite il consumo prevalente di quanto veniva prodotto in loco, non soltanto in termini di risorse alimentari, ma anche di altri beni di uso comune come manifatture, tessuti, attrezzi da lavoro, mobilio, etc. Nelle aree appenniniche il regime di autosufficienza appare già ben configurato in epoca protostorica, quando gli insediamenti umbro-sabellici tendevano a produrre il più possibile all’interno della comunità, secondo un’ottica di autoconsumo che si protrasse senza grandi sconvolgimenti anche durante il periodo romano, con la diffusione delle ville rustiche.Le invasioni barbariche e l’Alto Medioevo rafforzarono, se possibile, il dominio dell’economia di sussistenza nelle zone interne e nei territori montani, lontani dalle principali direttrici dei commerci, quando ogni villaggio doveva fare essenzialmente affidamento sulle proprie risorse per soddisfare le esigenze primarie. Tra queste esigenze primarie figurava la produzione di tessuti e di vestiario, che era assicurata in primo luogo dalla lana fornita dall’allevamento ovi-caprino, ma che poteva usufruire anche di varie risorse offerte dal mondo vegetale. 

Tra le piante spontanee nel territorio abruzzese le uniche specie dotate di interesse tessile sono la ginestra odorosa (Spartium junceum) (foto n.1), la ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius), l’ortica (Urtica dioica) ed alcune specie selvatiche appartenenti al genere Linum. In Abruzzo la ginestra odorosa è una specie molto comune, che vegeta dal livello del mare fino a circa 1600 m di quota, sui versanti collinari asciutti e soleggiati, di natura arenacea, argillosa, marnosa o calcarea. A volte così abbondante da imprimere localmente una marcata connotazione al paesaggio, soprattutto durante il periodo della fioritura, che avviene tra maggio e luglio, secondo la quota. Questa pianta appartiene alla famiglia delle Fabacee, come si evince chiaramente dal caratteristico fiore zigomorfo di colore giallo dorato e dai frutti che sono piccoli legumi, caratteri tipici di questa famiglia vegetale. Come si verifica in molte Fabacee presso le radici di Spartiumjunceum, in particolari tubercoli, vivono batteri azotofissatori appartenenti al genere Rhizobium, che fissano l’azoto molecolare atmosferico in azoto ammonico, consentendo così alla pianta di colonizzare anche i suoli sterili dei versanti collinari erosi e calanchivi, privi di accumulo di suolo organico. Grazie a questa sua capacità la ginestra odorosa si rivela una specie molto utile nel ripristinare la copertura vegetale in zone aride e degradate o addirittura nel colonizzare ambienti del tutto privi di vegetazione significativa, come le lave vulcaniche raffreddate. Questo accade, ad esempio, sulle aree sommitali del Vesuvio, dove la ginestra odorosa autoctona convive oggi con la ginestra dell’Etna (Genista aetnensis), pianta arborea introdotta dalla Sicilia, per contribuire anch’essa alla colonizzazione delle distese laviche ancora nude. La sfida della ginestra all’ostilità della natura nei severi ambienti vulcanici non sfuggì all’osservazione di Giacomo Leopardi, che durante il suo soggiorno in Campania, nel 1836, dedicò alla “odorata ginestra, contenta dei deserti” la sua penultima lirica. Fin dall’antichità la ginestra odorosa ha trovato utilizzo come pianta tessile nell’area mediterranea, presso Fenici, Cartaginesi, Greci e Romani. Il suo nome scientifico spartium deriva, infatti, dal termine greco sparton, che ha il significato di fune, corda per le navi, fatta con la ginestra o con i fusti di alcune Poacee di ambiente arido, quali l’alfa (Stipa tenacissima) e lo sparto (Lygeum spartum), diffuse nel settore meridionale dell’area mediterranea. Il termine sparton si collega tuttavia anche al verbo greco σπειρω (speiro) ‘seminare’ e probabilmente allude al fatto che la ginestra odorosa, come forse anche le altre specie note con il nome di sparto, fossero in epoca remota oggetto di coltivazione per le loro fibre. La grande diffusione di Spartium junceum in Italia e nei paesi mediterranei potrebbe quindi essere dovuta, almeno in parte, ad un’antichissima coltivazione.  Le fibre ottenute dai fusti giunchiformi della ginestra odorosa furono utilizzate nell’antichità per produrre cordame, spaghi, stuoie, reti da pesca resistenti alla salsedine e tessuti grossolani adatti alle velature delle imbarcazioni. In Italia uno dei maggiori centri di lavorazione della ginestra sembra essere stata l’antica Capua, in Campania, città fondata dagli Etruschi nel V secolo a.C. In seguito tuttavia l’impiego di questa pianta per scopi tessili in Italia sembra perdersi quasi completamente, sostituita forse dal lino e da fibre d’importazione. In Abruzzo non sembrano esservi testimonianze recenti dell’impiego della ginestra odorosa in campo tessile, nonostante la grande diffusione della pianta. Al contrario la tradizione dell’uso delle fibre di ginestra è ancora ben viva in alcune zone della Calabria e della Basilicata, ove esse sono tuttora impiegate per la realizzazione di teloni e di corde dopo un processo di bollitura, macerazione, scorticatura, battitura, sfibratura, cardatura, filatura, aspatura e colorazione. In passato comunque l’impiego doveva essere più esteso, soprattutto presso le comunità italo-abanesi, dove la tela di ginestra era comunemente utilizzata anche per confezionare camicie ed altri tipi di biancheria. Nel corso dell’ottocento e soprattutto durante il periodo dell’autarchia, tra il 1936 e la seconda guerra mondiale, in Italia si cercò di rilanciare l’uso della ginestra odorosa come pianta da fibra. In quegli anni sorsero ben 61 ginestrifici, distribuiti soprattutto in Toscana ed in Calabria, destinati soprattutto alla produzione di sacchi per l’imballaggio di prodotti agricoli che avrebbero dovuto sostituire i sacchi di juta (Chorchorus), fibra d’importazione proveniente dalle colonie inglesi in Asia. Dopo la fine del conflitto tale industria decadde comunque rapidamente a causa dei minori costi della juta e della difficoltà di disporre di una sufficiente produzione di fusti di ginestra utilizzando le sole popolazioni selvatiche della pianta. In alcuni luoghi anche la ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius) è stata usata, come Spartium junceum, per la produzione di tessuti, carta e reti da pesca, sebbene le fibre fornite da questa specie siano meno resistenti rispetto a quelle che si ottengono dalla ginestra odorosa. In Abruzzo la ginestra dei carbonai è diffusa soprattutto nella provincia di Teramo, nel comprensorio dei Monti della Laga, dove questo arbusto, tendenzialmente acidofilo, trova le condizioni edafiche più adatte e compare frequentemente al margine dei boschi, nelle grandi radure e soprattutto nei prati di media quota.  La ginestra odorosa è più adattata a condizioni di aridità ed allo scopo di ridurre l’evapotraspirazione si presenta quasi completamente priva di foglie, svolgendo i processi fotosintetici soprattutto attraverso i fusti giunchiformi verdi. Al contrario la ginestra dei carbonai, che è legata ad ambienti più freschi ed umidi, conserva buona parte delle piccole foglie e presenta fusti dalla colorazione verde più chiara. Nell’area dei Monti della Laga si hanno notizie dell’utilizzo come pianta tessile dell’ortica (Urtica dioica), le cui fibre trovavano impiego nella preparazione di sacchi. L’ortica rappresentò in passato un’importante pianta di interesse tessile, il cui impiego in Europa sembra risalire all’età del bronzo. Usata per la fibra anche dai Romani, Urtica dioica conobbe un ampio utilizzo, soprattutto durante il Medioevo, in varie regioni dell’Europa centrale. La stessa denominazione in lingua inglese dell’ortica, nettle, proviene dal protogermanico naton, che a sua volta rimanda ad una radice indoeuropea ned, dal significato di ‘intrecciare, annodare’, dalla quale discendono anche il termine inglese net ‘rete’ ed il latino nodus ‘nodo’. Sul finire del Medioevo l’uso della fibra di ortica decadde a causa della crescente diffusione del cotone (Gossypium) proveniente dal Vicino Oriente.  In seguito, quando durante il periodo napoleonico le merci coloniali scomparvero dai mercati dell’Europa continentale a causa del blocco continentale, tornò in auge l’impiego dell’ortica in campo tessile, tanto che in quegli anni persino le divise dei militari francesi erano tessute con fibra d’ortica. Anche in Italia il periodo dell’autarchia determinò un rinnovato interesse per l’ortica in campo tessile, tuttavia anche in questo caso il tentativo di recupero di tale fibra vegetale non ebbe seguito. L’ortica od ortica comune (Urtica dioica) (foto n. 2)Foto n. 2 Ortica (Urtica dioica L.) è una pianta molto comune appartenente alla famiglia delle Urticacee. Il nome ortica proviene dal latino urtica, che a sua volta deriva dal verbo urere ‘bruciare’, poiché queste piante si difendono dagli erbivori grazie a sottili peli unicellulari urticanti (tricomi). La cellula allungata di questi peli si restringe verso l’alto in una fragile estremità silicizzata, che, se sfiorata, si spezza come un sottilissimo ago di vetro ed inietta nella cute il suo contenuto, costituito da formiato di sodio, istamina, acetilcolina e serotonina, sostanze che causano un’irritazione dolorosa nei pressi della lesione. Questa strategia di difesa è motivata dal fatto che la pianta risulta particolarmente nutriente per gli erbivori, grazie al suo elevato contenuto di provitamina A, vitamina C, vitamina B 2, vitamina B 9, calcio, ferro, sodio, manganese, fosforo ed azoto. Urtica dioica è, infatti, una specie nitrofila, presente soprattutto in ambienti ruderali e presso sentieri, stazzi, corsi d’acqua e radure umide, zone dove il suolo è ricco di azoto e di composti organici in decomposizione. In generale questa pianta trova le condizioni più idonee per la sua diffusione negli ambienti antropizzati, dove riesce ad insediarsi in maniera molto tenace grazie alla notevole vitalità dei suoi germogli sotterranei. L’appellativo dioica che distingue la specie si riferisce al fatto che le piante presentano sessi separati ed alcuni individui producono solamente fiori maschili, mentre altri solamente fiori femminili. I fiori di ortica sono peraltro verdastri e poco appariscenti, perché come quelli delle specie del genere Parietaria, che fanno parte della stessa famiglia vegetale, sono impollinati dal vento, hanno cioè impollinazione anemogama. Le infiorescenze maschili sono erette e si sviluppano alla base delle foglie superiori, quelle femminili sono invece inclinate, più verdi e tendono a posizionarsi più in basso lungo il fusto quadrangolare della pianta. Il frutto che si sviluppa dai fiori femminili è un diclesio ovale, munito di peli ad un’estremità, che viene disperso anche dagli animali. L’ortica comune è una pianta perenne che nelle condizioni più favorevoli può superare l’altezza di 150 cm, la pianta non tollera comunque la lavorazione del terreno, per cui scompare dalle aree coltivate. In queste zone si possono osservare altre specie di ortica, di minori dimensioni ed a ciclo biologico annuale, come l’ortica minore (Urtica urens L.), l’ortica romana (Urtica pilulifera L.) e l’ortica membranosa (Urtica membranacea Poir ex Savigny), queste ultime presenti anche negli ambienti aridi e sui muri.  Il genere Urtica comprende circa trenta piante diffuse soprattutto nelle zone temperate dei due emisferi e nelle aree montane tropicali. In Asia meridionale ed in Oceania sono diffuse specie particolarmente urticanti e pericolose come Urtica ferox, che è un arbusto della Nuova Zelanda le cui “urticazioni” causate da peli aghiformi lunghi 6 mm, possono causare polineuropatie. Alcune di queste piante, un tempo incluse nel genere Urtica, ora sono attribuite a generi affini, come l’ortica degli elefanti (Dendrocnide sinuata (Blume) Chew.), nota in precedenza come Urtica crenulata Roxb., dell’India e dell’Indocina, i cui effetti delle punture durano per settimane, l’ortica arborea (Dendrocnide stimulans (L.) Chew), prima nota come Urtica stimulans L., diffusa in Indocina ed Indonesia e le temute Dendrocnide moroides (Wedd) Chew., distribuita in Indonesia ed Australia, ed Urtica urentissima Comm. ex Pers., di Timor, pericolose soprattutto per l’azione sul sistema nervoso locale, con conseguenze che durano mesi e possono diventare permanenti. Nonostante le loro difese anche alcune di queste piante sono sfruttate per le loro fibre, come Dendrocnide sinuata, dalla quale in India si ricava una fibra nota come “chor putta” o “surat” o l’ortica del Nilgiri (Girardinia diversifolia (Link.) Friis.), prima nota come Urtica heterophylla, che nell’Assam fornisce la fibra nota come “horu – surat”. In Giappone Urtica thumbergiana è stata impiegata per produrre cordami, mentre in Siberia si utilizza a scopo tessile Urtica cannabina L., dalla quale si ottiene una fibra simile al lino. Le popolazioni native dell’America nordoccidentale si servivano delle robuste fibre ottenute da Urtica breweri Wats., Urtica dioica subsp. holosericea (Nuttall) ed Urtica dioica var. lyalli (Wats.) per intrecciare corde.  Alla famiglia delle Urticacee appartengono altre importanti piante da fibra, come Bohemeria nivea (L.) Gaudich. della Cina, che fornisce il cosiddetto ramiè, fibra tessile nota fin dall’epoca egizia. Oggi Bohemeria nivea è coltivata in Cina, Giappone, Filippine, Russia e Brasile, dove la pianta è stata introdotta nello scorso secolo. La specie è inoltre spesso ospitata nei giardini, anche in Europa, per il suo valore ornamentale, dato dalle ampie foglie, biancastre sulla pagina inferiore. Le fibre di ramiè sono molto lunghe, robuste e dotate di lucentezza sericea, dal momento che sono costituite da cellulosa altamente cristallina, tendono tuttavia ad essere poco elastiche e presentano una certa fragilità in corrispondenza delle pieghe. Nei tessuti il ramiè si utilizza spesso in associazione con altre fibre, quali lana o cotone, sebbene il suo impiego in campo tessile tende a ridursi a motivo degli elevati costi del processo di estrazione delle fibre. Bohemeria nivea in tempi recenti si è rivelata comunque un’ottima fonte di cellulosa adatta alla realizzazione di bioplastiche. Le fibre del ramiè sono contenute nella corteccia dei fusti, per cui la loro estrazione inizia con la decorticazione delle piante. Successivamente occorre separare le fibre dalla scorza essiccata e quindi tramite lavaggi ed essiccazioni rimuovere i residui di corteccia e di gomme dai filamenti.  Le fibre vegetali chimicamente sono costituite dalla cellulosa che forma le pareti cellulari. La cellulosa è un polisaccaride composto da unità di glucosio, unite tra loro da un legame detto β-glicosidico. Alla cellulosa possono aggiungersi altre sostanze, come pectine o lignina, quest’ultima rende le fibre più dure, lignificate e meno flessibili, adatte soprattutto a confezionare cordami, sacchi, stuoie, cesti e cappelli, come accade nel caso di molte piante monocotiledoni, quali agave, rafia, bambù, canapa di Manila o abaca (Musa textilis), etc. Questo tipo di fibre sono solitamente fibre vascolari, posizionate presso i fasci fibro-vascolari che contengono gli elementi conduttori della linfa, in corrispondenza delle nervature delle grandi foglie di queste piante. La loro è una funzione è meccanica di sostegno, simile a quella delle fibre presenti nei fusti delle piante dicotiledoni. Le fibre tessili provenienti dai fusti e dagli steli dei vegetali sono solitamente definite fibre liberiane, perché provengono dal cosiddetto libro, la porzione di fusto posta tra la corteccia ed il legno vero e proprio, denominata anche floema, tessuto cribroso o cribro. Nel floema avviene il trasporto dei composti organici prodotti dagli organi fotosintetici (linfa elaborata) verso il resto della pianta. Il nome libro trae origine dal latino liber, la membrana posta sotto la scorza interna dell’albero, presente anche nel fusto del papiro, sulla quale si poteva scrivere. Il termine cribro deriva dal fatto che le pareti dei canali nei quali transita la linfa elaborata, soprattutto quelle trasversali, sono fittamente perforate da pori, così da assumere l’aspetto di un crivello o cribro (in latino cribrum). Le fibre liberiane presenti nel floema derivano da cellule fusiformi, molto allungate e munite di estremità appuntite e pareti cellulari ispessite, specializzate nel conferire resistenza alla trazione. Essendo elementi induriti, destinati solo ad una funzione meccanica, queste fibre fanno parte del cosiddetto sclerenchima (dal greco scléros ‘duro’), insieme di cellule e di tessuti per lo più morti, destinato a fornire solidità ed elasticità alla struttura dei vegetali. Le fibre sclerenchimatiche possono avere una lunghezza notevolmente superiore a quella delle altre cellule vegetali, che in media si attesta su 1 – 2 mm. Nel lino, ad esempio, raggiungono una lunghezza di 6,5 cm, nell’ortica (Urtica dioica) arrivano a 7,5 cm, ma nel ramiè (Bohemeria nivea) possono pervenire fino a 55 cm di lunghezza.  L’uomo, soprattutto in epoca preistorica, durante il Neolitico, ha utilizzato largamente in Europa le fibre liberiane provenienti dal floema di alcune piante arboree, come il tiglio (Tilia cordata), l’olmo campestre (Ulmus campestris), alcune querce (Quercus spp.) ed alcuni salici (Salix fragilis, S. triandra). In particolare l’uso del tiglio deve essere stato molto esteso, poiché dal nome di questo albero, tramite il francese tille, derivano alcuni termini entrati nell’uso comune come tiglio, inteso come fibra, e tiglioso, con il significato di fibroso. I giovani rami di questi alberi venivano raccolti in primavera e posti a macerare in acqua affinché si decomponessero i tessuti più morbidi della scorza e del libro e si potessero liberare più facilmente le fibre liberiane, piuttosto grossolane, destinate ad essere intrecciate per produrre soprattutto reti da pesca e da caccia, cesti, stuoie e funi.  Oltre alle fibre provenienti dalle foglie, dai fusti e dagli steli, i vegetali forniscono anche filamenti di cellulosa che circondano i semi ed i frutti, dei quali aiutano la dispersione per mezzo del vento. Appartengono a questa categoria fibre molto leggere e quasi prive di lignina, come quelle fornite dal cotone (Gossypium spp.) e dal kapok (Ceiba pentandra), che talora, a causa della loro diversa funzione,  sono comunque troppo corte per essere filate. Durante la preistoria europea, quando le popolazioni umane erano costrette a sperimentare lo sfruttamento di tutte le risorse fornite dall’ambiente per soddisfare le loro esigenze furono impiegate per uso tessile molte specie vegetali appartenenti alla flora europea, a partire da piante erbacee come giunchi ed altre specie palustri. Questi grazie ai loro tegumenti impermeabili venivano intrecciati per produrre mantelli, copricapi, stuoie e tettoie adatti a riparare dalla pioggia. L’utilizzo dell’intero fusto delle piante per realizzare manufatti semplicemente intrecciati si fa risalire al periodo Paleolitico, mentre solo successivamente, con il Neolitico, si afferma l’uso delle fibre estratte dai vegetali spontanei per la cucitura e la tessitura. Durante il tardo Neolitico si iniziano a selezionare alcune specie vegetali particolarmente idonee alla produzione di fibre, come l’ortica, la ginestra odorosa ed il lino.  Quest’ultima pianta appare gia ampiamente coltivata in Europa ed in Italia sul finire dell’età neolitica, ma l’utilizzo  per scopi tessili del lino probabilmente non ha avuto origine in Europa, ma in Asia centrale o in Medio Oriente in un periodo antichissimo, precedente forse a 10.000 anni fa. Le specie appartenenti al genere Linum presentano infatti la loro massima diffusione nelle praterie e nelle aree steppiche delle zone temperate e mediterranee, pertanto è difficile che in un contesto europeo dominato dai boschi l’uomo abbia potuto familiarizzare con questa risorsa. 

Foto n. 3 Fiore di lino coltivato (Linum usitatissimum L.)

In ambiente di prateria la vistosa fioritura di alcune specie spontanee del genere Linum, dotate di ampia corolla azzurra, poteva sicuramente attrarre l’attenzione dell’uomo, che presto si sarebbe reso conto della inconsueta resistenza alla trazione dei sottili fusti di queste piante, dovuta alle 20 – 50 fibre cellulosiche contenute nella scorza. 

Queste fibre avevano probabilmente lo scopo di assicurare la stabilità ai fusti sormontati dai fiori e dai frutti anche in presenza di forti piogge e dei venti intensi che soffiano nelle zone aperte. I frutti del lino sono capsule subsferiche del diametro di 5 – 7 mm, solitamente indeiscenti nelle forme coltivate, contenenti semi ricchi di oli, commestibili per l’uomo. Il lino coltivato (Linum usitatissimum L.) (foto n.3) appartiene alla famiglia delle Linacee, un raggruppamento che comprendente 250 specie, ripartite in 14 generi.  Il genere Linum, che è il più vasto della famiglia, comprende circa 180 specie di piante erbacee annuali e perenni, raramente piccoli frutici, caratterizzati da fiori solitamente vistosi, muniti di corolla a 5 petali, i cui vivaci colori presentano un assortimento caratteristico e quasi unico in campo vegetale, variando dall’azzurro al celeste, dal giallo al rosso, fino ad arrivare al bianco. 

Foto n. 4  Fiore di Linum alpinum Jacq nei prati d'alta quota del Gran Sasso. Ph. N.Olivieri

In Italia esistono 20 specie appartenenti al genere Linum distribuite dagli ambienti alpini alle coste mediterranee, mentre in Abruzzo si segnala la presenza di 12 specie di lino selvatiche, oltre a Linum usitatissimum L. I prati montani e quelli delle vallate interne abruzzesi ospitano nella tarda primavera ed all’inizio dell’estate smaglianti fioriture di specie appartenenti al genere Linum contraddistinte spesso da vivide colorazioni azzurre o celesti, come Linum alpinum Jacq. (foto n.4), Linum narbonense L. e Linum austriacum subsp. tommasinii (Rcbh.) Greuter & Burdet. In provincia di Teramo, dalla fascia collinare fino alle alte quote è invece molto diffuso Linum viscosum L. (foto n.5),Foto n. 5 Fiore di Linum viscosum L. nei pascoli del Gran Sasso. Ph. N.Olivieri
dotato fiori di colore rosa carico, che si rinviene anche nei prati freschi e nelle radure erbose. Tipico delle alte quote è invece
Linum capitatum subsp. serrulatum (Bertol.) Harvig (foto n. 6).,dai luminosi petali di colore giallo, non raro nell’area del Gran Sasso. Altre specie di Linum dai fiori molto più modesti, come Linumtenuifolium L., dai fiori bianchi (foto n.7),  Linum trigynum L. e Linum strictum L. sono piuttosto diffuse nei prati aridi, nelle garighe ed anche lungo le strade, ma tendono più spesso a sfuggire all’osservazione.

Foto n. 6  Fiore di Linum capitatum subsp. serrulatum (Bertol.) Harvig in prati d'alta quota del Gran Sasso. Ph. N.Olivieri

La vivace colorazione dei fiori di molte specie di Linum le rende adatte all’utilizzo come piante ornamentali, soprattutto nei giardini delle zone fresche, dove le fioriture durano più a lungo. Il lino coltivato Linum usitatissimum L. deriva probabilmente dalla specie selvatica mediterranea Linum bienne Mill., presente qua e là anche in Abruzzo, nelle aree incolte e nei campi. Linum bienne presenta oggi un areale di distribuzione piuttosto ampio in Europa e nell’area mediterranea, ma forse soprattutto come relitto di antiche coltivazioni. Al di fuori dell’area mediterranea nel 2009 la grotta di Dzuzuana, nell’attuale Repubblica di Georgia, ha fornito resti di fibre di lino risalenti al Paleolitico superiore, cioè ad un periodo risalente tra i 26000 ed i 32000 anni fa, secondo le datazioni effettuate con il radiocarbonio. Le fibre di lino rinvenute nella grotta di Dzuzuana appartengono quasi sicuramente ad una specie selvatica che veniva raccolta dalle popolazioni di cacciatori nomadi insediate nella zona per produrre tessuti colorati con pigmenti estratti da specie vegetali. Questi reperti testimoniano quindi non solo l’impiego del lino a scopo tessile, ma anche la conoscenza di tecnologie di taglio, tessitura e colorazione delle fibre da parte delle comunità di Homo sapiens insediate all’epoca nell’area caucasica. Per quanto concerne l’area mediterranea dai reperti archeologici si evince che già intorno al 6000 a C. il lino fosse oggetto di coltivazione a Gerico, in Cisgiordania, tuttavia i dati disponibili non consentono di chiarire se lo scopo della coltura fosse lo sfruttamento de semi o delle fibre.

Foto n. 7  Fiore di Linum tenuifolium L., in un prato arido dei Monti Gemelli. Ph. N.Olivieri

Nell’antico Egitto il lino rientrava tra le specie di maggiore rilievo in campo agricolo e veniva utilizzato largamente sia per l’alimentazione umana che per la fibra, con la quale si producevano tessuti dai più svariati utilizzi. Dall’Egitto probabilmente la coltura del lino si diffuse in Etiopia. La Grecia rappresenta la prima regione europea da cui siano pervenute testimonianze della coltivazione del lino, intorno al 6000 a. C., successivamente nel corso del Neolitico la coltura si diffuse in altri territori europei, come l’Italia settentrionale e la vicina Svizzera, dove era presente presso i villaggi di palafitticoli. Nell’Europa centrale la coltura sembra essere giunta solo poco prima dell’età romana, tuttavia i mercanti Fenici già molto tempo prima attraverso le rotte atlantiche avevano fatto conoscere in quelle regioni i tessuti di lino prodotti in Egitto. Durante il Neolitico nell’Italia settentrionale e nelle regioni limitrofe veniva coltivata ancora la specie selvatica a ciclo biennale Linum bienne, dotata di più fusti per pianta e steli più brevi, tuttavia durante il periodo romano nella penisola italiana si coltivava sicuramente solo Linum usitatissimum, specie a ciclo annuale e dotata di fusto unico più lungo, probabilmente selezionata a partire Linum bienne nel Vicino Oriente. La diffusione del lino coincise in Europa con l’abbandono di molte delle tradizionali fibre tessili di origine vegetali utilizzate in precedenza. Il lino venne, infatti, utilizzato non solamente per abiti e biancheria, ma anche per le vele delle imbarcazioni, le tende per proteggersi dal sole, le reti da pesca e da caccia, le corde. Con teli di lino vennero realizzati per la prima volta nelle Gallie cuscini e materassi imbottiti di lana o di piume, che rapidamente si diffusero nell’Italia romana, soppiantando gli antichi pagliericci di foglie o di paglia (stramenta). Dal termine lino derivano le parole italiane lenzuolo e lenza, attraverso l’aggettivo latino linteus ‘di lino’, mentre presso i Sanniti esisteva un corpo speciale dell’esercito denominato, secondo Tito Livio, Legio linteata, poiché i soldati che ne facevano parte prestavano uno speciale giuramento segreto all’interno di un padiglione rituale coperto da teli di lino. Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia riferisce che l’introduzione delle vele di lino, avvenuta in Grecia, rappresentò un enorme progresso nel campo della navigazione e consenti il moltiplicarsi dei viaggi e degli scambi attraverso i mari. Plinio il Vecchio afferma inoltre che già ai suoi tempi le qualità migliori di lino provenivano dalla penisola iberica e dalle Gallie, mentre in Italia era rinomata la produzione dell’attuale Lombardia e della zona di Faenza.  A Cuma, in Campania, il lino era utilizzato per la produzione di reti da caccia e da pesca di ottima qualità, mentre in Abruzzo il lino prodotto nel territorio dei Peligni si distingueva per il colore particolarmente candido e veniva utilizzato per la produzione di biancheria. Durante il Medioevo si registra la massima diffusione dell’uso del lino in Europa, sebbene per alcuni impieghi esso fosse stato sostituito da qualche tempo dalla canapa (Cannabis sativa). In questo periodo il lino di maggiore pregio continuò ad essere appannaggio delle regioni dell’Europa atlantica come le Fiandre, l’Olanda, l’Irlanda e la Francia, mentre la coltura si diffondeva ulteriormente verso la Polonia, la Russia e la Svezia. Il clima atlantico, caratterizzato da elevata e regolare piovosità e da temperature primaverili fresche, favorisce il raggiungimento di un maggiore grado di sviluppo delle piante prima della fioritura e della fruttificazione, tale diverso ritmo di sviluppo si traduce in una migliore qualità delle fibre. Linum usitatissimum da fibra dimostra infatti un significativo grado di igrofitismo durante le prime fasi del ciclo vegetativo e subisce invece sensibili danni a causa dei periodi di siccità primaverili. Al contrario nelle zone caldo-aride, dove la primavera è breve ed il ciclo di sviluppo della pianta più rapido, la qualità delle fibre prodotte risulta generalmente inferiore, mentre si esalta invece la produzione dei semi. In queste zone prevalgono pertanto le cultivar da olio o da seme industriale, nelle quali il peso di 1000 semi può arrivare a 15 g. Questi sono stati impiegati per lungo tempo nell’alimentazione umana, soprattutto nel Vicino Oriente, ma già presso i Romani il loro uso alimentare era ormai circoscritto solo ad alcuni dolci tradizionali ed a prodotti rituali. Il loro impiego si è conservato invece nel campo dell’alimentazione animale. I frutti del lino contengono piccoli semi lucenti, oleaginosi, di colore bruno o verdastro, ricchi di mucillagini e di oli, costituiti in buona percentuale da acidi grassi polinsaturi di tipo omega-3, come l’acido α-linolenico (circa 50 %) ed omega-6, come l’acido linoleico (circa 25 %). L’olio di semi di lino, detto anche linosa,  rappresenta quindi una buona fonte di acidi grassi omega-3, anche se di valore inferiore rispetto agli oli di pesce. Se esposto all’aria ed alla luce l’olio di lino tende rapidamente ad irrancidire per ossidazione, questa caratteristica lo fa rientrare tra i cosiddetti oli siccativi, adatti alla produzione di vernici e di pitture.

La semina del lino avviene solitamente tra febbraio e marzo per le varietà più diffuse, dette marzuole o marzotiche, che completano il suo sviluppo in appena 80-120 giorni, ma esiste anche il lino autunnale, dalle caratteristiche più arcaiche, detto vernengo, vernotico o ravagno, che era coltivato soprattutto nei paesi alpini. Lo sviluppo delle piante è in genere molto rapido, e nelle varietà da fibra, dette anche da tiglio, alla maturità possono raggiungere 1,5 m d’altezza. In genere in Italia questo avviene tra i mesi di maggio e di giugno, mentre bisogna attendere luglio più a settentrione. I fiori in genere hanno colore azzurro o celeste, talora bianco, tra le varietà che erano coltivate in Italia si possono ricordare il Blu di Riga, il Blu d’Olanda, il Nostrale primaverile, il Bianco d’Olanda ed il Ravagno.

Il momento della raccolta per le varietà da tiglio coincide con l’inizio dell’ingiallimento delle piante dopo la fioritura, altrimenti i fusti tendono a lignificare, per le varietà da seme si attende invece la maturazione delle capsule. Il lino da tiglio viene estirpato, privato delle capsule con un pettine e posto ad essiccare raccolto in fasci (mannelli). Successivamente occorre eliminare le lamelle di pectina che circondano le fibre liberiane dei fusti, tramite l’azione biologica di microrganismi decompositori anaerobi.  Questo tradizionalmente avveniva con la macerazione rustica in acqua fredda durante l’estate. In tempi più recenti si è affermata anche la macerazione industriale in acqua calda. La macerazione rustica in acqua di grandi quantitativi di fasci all’interno di apposite vasche o maceri, spesso ricavati nel letto dei fiumi, poteva comportare dei problemi di igiene nei pressi degli abitati. La grande quantità di tessuti vegetali in via di decomposizione all’interno di questi bacini determinava la proliferazione di varie specie di ditteri, anche ematofagi, e la liberazione di miasmi molesti. Per questo in vari statuti comunali abruzzesi, tra cui quelli di Teramo e di Montorio al Vomano, si prescriveva che le vasche destinate alla macerazione del lino e della canapa dovevano essere poste lontano dalle aree urbane.  In alcuni paesi europei per la macerazione si ricorreva all’acqua lentamente corrente di alcuni fiumi e canali, mentre in aree dove l’estate era particolarmente umida e fresca essa poteva essere attuata anche semplicemente  lasciando i fasci sulla superficie del terreno.  La lavorazione tradizionale  dopo la fase di macerazione prevedeva l’esposizione all’aria dei mannelli per farli asciugare, la gramolatura, la scuotitura e l’ammorbidimento, allo scopo di eliminare i residui del fusto e rendere le fibre più lucenti e morbide.  Successivamente i fasci di fibre erano sottoposti alla pettinatura, alla squadratura, alla stenditura, alla cardatura ed alla filatura. Certamente un ciclo di lavorazioni complesso per un prodotto che nel nostro paese non raggiungeva in genere elevata qualità ed alimentava un mercato essenzialmente locale.  Queste motivazioni sono alla base del progressivo abbandono della coltura in Italia durante lo scorso secolo, a vantaggio dei lini di qualità migliore prodotti all’estero, del cotone e delle fibre sintetiche. Durante il periodo fascista vi furono tentativi di rilancio della coltura nelle regioni settentrionali e nelle Marche, ma intorno alla metà degli anni ’60 la superficie complessiva delle aree interessate si era ridotta ad appena 140 ettari, distribuiti soprattutto nell’interno delle Marche,  dell’Abruzzo e della Sicilia, dove il lino era destinato ad un utilizzo essenzialmente familiare. Anche in precedenza in Abruzzo la coltura del  lino presentava maggiore diffusione nelle aree interne dell’aquilano, come nella zona di San Demetrio ne’ Vestini, dove le condizioni climatiche erano più idonee ed il prodotto raggiungeva un livello di qualità migliore, secondo quanto già noto in epoca romana. Oggi che la coltura di lino da fibra dopo millenni di storia risulta praticamente scomparsa dall’Italia e dall’Abruzzo è legittimo chiedersi come riesca la nostra civiltà a privarsi di un tessuto dalle qualità così speciali, sostituendolo con molta facilità con altre fibre dalle prestazioni decisamente inferiori. La risposta a questa domanda presuppone un’analisi approfondita dell’evoluzione del nostro rapporto con l’ambiente ed i beni di consumo  nel corso degli ultimi decenni, evoluzione che ci ha portato troppo spesso ad accontentarci di surrogati scadenti sull’onda di mode capillarmente diffuse dai mezzi di comunicazione di massa. La scomparsa della coltura del lino è tuttavia ancora molto recente e nella nostra memoria collettiva sopravvivono ancora chiari i ricordi delle tecnologie utilizzate nella secolare attività di estrazione e lavorazione della fibra, sicuramente un presupposto fondamentale in vista di future esperienze di recupero. Una vicenda per molti versi paragonabile a quella della coltura del lino si è ripetuta per l’altra fibra tessile comunemente prodotta in Italia fino all’ultimo dopoguerra: la canapa (Cannabis sativa L.). A differenza di quanto accadeva per il lino la produzione di canapa italiana raggiungeva elevati livelli qualitativi, soprattutto in alcune delle regioni settentrionali, come l’Emilia Romagna, dove nei primi anni del secolo scorso si contavano 45000 ettari di canapai,ed il Piemonte, ma anche nelle Marche ed in Campania.  Per questo motivo, dopo  il drastico declino degli ultimi decenni, la coltura della canapa a scopo tessile attualmente mostra un’apprezzabile ripresa proprio in quelle regioni italiane dove la tradizione della canapicoltura era più consolidata. Cannabis sativa L. (foto n.8) Foto n. 8 Pianta di Cannabis sativa L. Ph. N.Olivieriappartiene alla famiglia delle Cannabacee, un raggruppamento che presenta delle affinità  con le Urticacee. Come l’ortica la canapa solitamente è una pianta dioica, nella  quale i fiori maschili e quelli femminili sono portati da individui differenti. La pianta ha ciclo annuale, ma crescita piuttosto rapida, per cui in condizioni ideali può raggiungere anche altezze superiori ai 4 m. Il fusto è eretto, dotato di corteccia ruvida, le foglie, per la maggior parte alterne,  hanno lamina palmata, suddivisa in 5 – 11 segmenti lanceolati muniti di bordo seghettato, lunghi fino a 10 cm e dotati di estremità appuntita. I fiori maschili, che hanno una larghezza di circa 5 mm, presentano 5 stami, sono giallastri e riuniti in pannocchie situate al di sotto delle foglie, mentre i fiori femminili sono riuniti in numero di 3-5 in corte spighe alla base di brattee situate nella porzione superiore del fusto. L’impollinazione, che avviene durante la stagione estiva, è assicurata dal vento ed i frutti sono acheni lucidi di colore grigiastro lunghi 3-5 mm, contenenti semi utilizzati per l’alimentazione degli  uccelli, ma anche dell’uomo. Dai semi si estrae un olio contenente acidi grassi del tipo omega-3, che è stato utilizzato anche come biocombustibile. La pianta possiede una radice fittonante molto lunga e predilige terreni sciolti, fertili, profondi e forniti di buona disponibilità idrica. Cannabis sativa è originaria dell’Asia centrale e forse anche del subcontinente indiano, predilige per questo climi caratterizzati da estate calda ed umida, come si verifica nelle aree monsoniche. All’interno dell’areale di distribuzione di Cannabis sativa  sussistono differenti varietà, che alcuni autori elevano al rango di specie vere e proprie. Una delle caratteristiche che differenzia alcune di queste varietà, come quella definita indica, detta anche canapa indiana, è la percentuale di acido tetraidrocannabinolico (THCA), cannabinoide non psicoattivo che rappresenta il precursore del delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), composto psicoattivo allucinogeno che si origina per decarbossilazione a temperature elevate. In queste varietà  il THCA è presente soprattutto nella resina prodotta dai tricomi presenti nelle infiorescenze femminili. I cannabinoidi sono composti chimici naturali, classificati come terpenofenoli, caratterizzati dalla capacità di interagire con i recettori cannabinoidi CB1 e CB2 del sistema nervoso centrale, determinando il rilascio di dopamina e glutammato.  In Italia ed in Europa tradizionalmente si coltivava per scopi tessili solo la sottospecie o specie sativa, caratterizzata da un basso contenuto in THCA, dal momento che fin dal 1484 la bolla pontificia “Summis desiderantes affectibus” di Innocenzo VIII, vietava severamente l’utilizzo delle erbe allucinogene, tra cui la canapa indiana.  Negli Stati Uniti d’America e nel Messico prima della Seconda Guerra Mondiale esistevano coltivazioni di entrambe le sottospecie. Sebbene ci si indirizzasse verso lo studio di svariate applicazioni della fibra di canapa in campo tecnologico, nel timore di facili confusioni, nel 1937 venne approvata una  legge che proibiva la coltivazione di qualsiasi tipo di canapa negli U.S.A, anche a scopo industriale o farmaceutico. In Europa la canapa è giunta relativamente tardi, probabilmente durante l’età del ferro, tramite le popolazioni scitiche dell’area sarmatica, che ne avevano appreso la coltivazione da genti dell’Asia centrale. In Italia la coltura si diffuse ampiamente solo in età imperiale, ma si conservò anche durante l’Alto medioevo. La fibra di canapa sostituì rapidamente il lino e l’ortica nella preparazione di funi, gomene, sacchi, vele e telame grossolano, ma presso alcune fasce della popolazione venne impiegata largamente anche per lenzuola, indumenti, camicie, etc. Durante il Medioevo la canapa fu utilizzata largamente dalle Repubbliche marinare e questo ne spiega in parte la maggiore diffusione della coltura in alcune regioni italiane. La fibra veniva utilizzata anche per produrre la carta ed i semi erano impiegati per integrare l’alimentazione umana ed animale. La necessità della coltura di suoli umidi e profondi ne spiega la diffusione in Abruzzo soprattutto nelle grandi conche della provincia aquilana e nella parte settentrionale della provincia di Teramo. I toponimi ‘cannavine’ e ‘canapine’  ancora abbastanza frequenti nelle aree montane abruzzesi, in genere presso i corsi d’acqua, traggono origine dalla presenza di aree caratterizzate da terreni fertili ed umidi, idonei alla coltivazione della canapa, ma anche degli ortaggi e quindi dotati di particolare valore. In tali piccoli appezzamenti la coltivazione della canapa serviva soprattutto alla produzione di indumenti destinati ai corredi femminili. La semina dei canapai avveniva in marzo e la raccolta delle piante per la fibra subito dopo la fioritura, tra luglio ed agosto a seconda del clima.   L’estrazione della fibra e la sua lavorazione seguiva un iter abbastanza simile a quello del lino, con un periodo di macerazione dei fusti in apposite vasche, che in Emilia Romagna erano utilizzate anche per l’allevamento di pesci. Attualmente però si ricorre generalmente alla macerazione microbiologica a carattere industriale in appositi impianti, esterni alle aziende agricole. La decadenza della coltura in Italia, iniziata nel secondo dopoguerra a seguito della concorrenza della juta e delle fibre sintetiche,  ha raggiunto il culmine dopo il 1975, quando insieme all’inasprimento del divieto di coltivazione della canapa indiana furono adottate severe regolamentazioni nei confronti della coltura di canapa da fibra. Una prima distinzione tra le due entità non risulta peraltro sempre facile e si basa soprattutto sull’aspetto delle foglie, che in Cannabis sativa sono dotate in genere di lamina più larga, inoltre le varietà da tiglio raggiungono anche maggiori dimensioni. In Abruzzo comunque molto prima dell’emanazione di queste norme la coltura era già virtualmente scomparsa. In Italia dal 2002 la coltivazione industriale della canapa è consentita dietro autorizzazione, in base alla circolare ministeriale del Ministero per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali n. 1 prot. 200 dell’8 maggio 2002, limitata a varietà di canapa certificate, appositamente selezionate per avere un contenuto trascurabile di THC (inferiore allo 0,2 %).  Questa nuova disciplina, come si è detto, ha consentito una ripresa della canapicoltura  nelle aree italiane particolarmente vocate e di recente sembra aver favorito la nascita di qualche iniziativa sperimentale anche nel territorio abruzzese. Nel 2013 infatti nella piana del Fucino un ettaro di terreno è stato adibito alla coltivazione di canapa da fibra e da seme per uso industriale,  mentre sempre in provincia dell’Aquila si registra la nascita di qualche laboratorio di tessitura artigianale ed artistica basato sull’impiego della canapa e di altre fibre naturali.

  Nicola Olivieri

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